martedì 27 settembre 2011

La pietra e la corda




Cala la mobilitazione sul caso di Sakineh, da quando la condanna a morte per lapidazione è stata trasformata in condanna a morte per impiccagione. Cambia anche il reato, dall'adulterio all'omicidio. Alcune riflessioni si impongono a questo punto.

Esiste una modalità di erogazione della morte che risulti più gradevole rispetto ad un'altra? E perché?

La lapidazione è indubbiamente una morte atroce, lenta e dolorosissima. Quando sono le donne ad essere lapidate il loro corpo viene seppellito in una buca molto più profondamente di quanto venga interrato il corpo di un uomo, infatti se il condannato riesce a liberarsi ha salva la vita. Nel caso di una donna si vuole essere ben certi che non possa liberarsi. A differenza di quanto avviene per i condannati uomini, il viso delle donne non viene coperto. Sono quindi ben visibili i traumi che progressivamente si stampano sul volto e sulla testa della condannata, e le espressioni di terrore, le smorfie dell'agonia. Non sono dettagli.

Ma anche la morte per impiccagione è indubbiamente molto crudele. O il condannato ha la "fortuna" di rompersi il collo nell'apertura della botola o la morte sopraggiunge per soffocamento e possono essere necessari anche quindici lunghissimi minuti per morire. Curiosità macabra, molto dipende dal tipo di corda e dal tipo di nodo. Lasciare un cappio allentato favorisce una morte rapida, serrarlo bene intorno al collo invece una morte lunga. Rimane la macrabra anedottica della morte di Eva Dugan, condannata alla pena capitale in Arizona negli anni ‘30, che venne decapitata durante l’impiccagione. Le persone che erano presenti all'evento videro rotolarne la testa ai loro piedi.

Quindi, che cosa è cambiato per fare calare l'attenzione mediatica sul caso Sakineh? E' cambiato che la morte per impiccagione ha il sapore di una morte occidentale. Tutti noi abbiamo visto film western in cui si impiccavano i condannati al primo albero, nelle versioni patibolo o cavallo. Molto americano. Già. Sottile l’ironia del regime iraniano, che dopo l'ondata di proteste internazionali non fa altro che modificare la modalità di morte e trasformarla in qualcosa che è presente o è stato presente fino a non molto tempo fa anche in quella che viene considerata la migliore democrazia del mondo, gli Stati Uniti. Che prevedono in molti stati la pena di morte per omicidio, anche per impiccagione.

A questo punto appare chiaro che difendere Sakineh non ha più la valenza antislamica che possedeva in origine, perché sigilla le bocche di tutti coloro che non protestano contro la pena di morte in ogni parte del mondo comunque venga erogata.

Altro elemento di riflessione è che la pressione mediatica è riuscita ad essere ascoltata perfino dal rigidissimo governo iraniano, che ha dovuto prendere atto della mobilitazione internazionale. Possiamo dire che il monolitico regime sa che il mondo esterno è in grado di avere informazioni e esercitare pressioni. La presa d’atto ha comunque il sapore della beffa, perché il governo iraniano ha posto il suo strumento di giustizia sullo stesso livello di quello americano. Allineandosi. Noi come loro. La mossa del cavallo, direbbe Camilleri.

Pesano sulla vicenda di Sakineh tutta una serie di incongruenze e di doppiopesismi. Mentre la mobilitazione internazionale ha speso e spenderà, con ragione, parole ed iniziative per Sakineh, è morta quasi nel silenzio generale Teresa Lewis, mandante di omicidio (gli esecutori materiali dell'omicidio sono stati invece condannati all'ergastolo) applicando la pena capitale malgrado la donna possedesse un QI di 72. Due punti sopra l'incapacità di intendere e volere, ovvero conscia del suo operato grazie a quei due punti generosamente concessi da madre natura o da chi per lei. Nessuna mobilitazione internazionale per Teresa, nessuna Carlà minacciata ed insultata pubblicamente.

Dietro queste due vicende di condanna a morte, una eseguita e una no, ci sono delle verità che non possono essere dette.

Ovvero che esiste una morte buona erogata da un governo buono, democratico, garantista, e una morte cattiva erogata da un governo cattivo.

Io ho firmato e rifirmerei l'appello per Sakineh, pur non essendo aprioristicamente contraria alla pena di morte (non lo era nemmeno il Beccaria). Ma non ho trovato un appello da firmare per Teresa Lewis, e tutto questo mi porta a dire, credo onestamente, che la mia firma esprime solamente la scelta tra la pietra e la corda.

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