martedì 27 settembre 2011

Quando la malattia è rara


In Italia ci sono malati che non sono come gli altri. Sono i portatori delle cosiddette malattie rare, in altre parole quelle malattie che colpiscono meno di una persona su 2000; il 70% dei casi riguarda l'età pediatrica. Un piccolo esercito di due milioni di persone in Italia per oltre 6000 patologie diverse, la cui origine è genetica nell’80% dei casi. Generalmente sono malattie croniche, spesso degenerative, disabilitanti e ad elevato impatto psicologico e sociale.
Certamente di malattie rare ne abbiano sentito parlare, così come di” farmaci orfani” (quelli che non sono sviluppati perché il mercato è considerato insufficiente), ma ci siamo mai veramente chiesti che cosa significa avere la doppia sfortuna di essere ammalati di qualcosa di “non convenzionale”?
Chi soffre di malattie rare ha difficoltà di accesso alle informazioni, ai farmaci, ad una diagnosi tempestiva, a cure adeguate e soprattutto a cure innovative.
Per avere la diagnosi corretta di malattia rara occorrono mediamente tre anni, ma anche sette. La diagnosi è molto spesso posta da Centri specializzati ai quali il paziente può giungere dopo molti insuccessi e pellegrinaggi per la mancanza di collegamenti tra Centri specializzati e medicina del territorio. Sorprendentemente spesso sono le associazioni di malati e perfino il web a mettere in contatto il malato con il centro di riferimento. Un passaparola che supplisce la mancanza di un percorso finalizzato e strutturato tra territorio e specialistiche. Sono i Centri Specializzati a riconoscere le malattie rare in più di 8 casi su 10, laddove medico di famiglia e pediatra sono in grado di porre diagnosi solamente in poco più del 4% e del 18% dei casi rispettivamente. Il risvolto pratico di queste mancate diagnosi è di perdere tempo (e risorse) senza conoscere specificatamente quale sia il nemico da affrontare.
Una volta che faticosamente è posta la diagnosi di malattia rara, che succede? Spesso, e in alcune statistiche si parla di più del 65% dei casi (pur ricordando che queste statistiche sono limitate e quindi poco attendibili) il SSN non considera rimborsabili i farmaci indicati per il trattamento (in pratica la non concessione della classe A), e capita che i costi per il loro l’acquisto debbano essere sostenuti dal malato. Nel dieci percento dei casi si verifica l’abbandono delle terapie perché il malato non è in grado di farvi fronte economicamente. A volte parliamo di farmaci salvavita. Ci sono altre variabili oltre al mero costo dei farmaci, che rendono in alcuni casi superiore ai 7000 euro l’anno le spese vive sostenute dai pazienti e non rimborsate. A formare questa cifra concorrono ad esempio i costi dovuti a spostamenti e pernottamenti in Centri non facilmente raggiungibili, spesso raddoppiate dalla necessità di un accompagnatore, la perdita di giornate lavorative oltre che l’esecuzione di esami che non sono coperti dall’esenzione alla partecipazione alla spesa sanitaria per patologia.
Il nodo davvero cruciale è quello dei farmaci ad alto costo, che esistono, andrebbero concessi ma non sono erogati o almeno non lo sono in maniera uniforme sul territorio e trasparente, soprattutto per i pazienti non pediatrici. Ricordavamo prima il lungo tempo necessario per arrivare alla diagnosi. A volte non basta, il malato ha finalmente la diagnosi, il farmaco esiste, è in prontuario, è perfino a costo zero per il paziente (pur se ad alto costo per il SSN) ma non viene prescritto. Nella pressoché totalità dei casi il problema è rappresentato dai costi, dall’impossibilità di pianificarli (anche per la difficoltà di conoscere l’aspettativa di vita dei malati e in assenza di protocolli uniformi, dato che l’esperienza di trattamento è molto limitata) e dalla presenza di un tetto massimo di spesa. Inoltre, per effetto del federalismo sanitario assistiamo a diritti garantiti in modo variabile da regione a regione: una patologia può semplicemente “sparire” in una regione per esclusione dai LEA regionali (Livelli Essenziali di Assistenza) e perdere così ogni riconoscimento.
Insomma una situazione molto complessa, burocratizzata, con situazioni paradossali che deve essere affrontata e risolta in modo urgente e definitivo, tenendo presente alcuni punti fondamentali. Non è eticamente accettabile che l’appartenenza a regioni diverse possa creare differenti possibilità di accesso alle terapie per le malattie rare. Allo stesso modo è imperativo garantire la massima trasparenza nella gestione e nell’utilizzo delle risorse che sono destinate alle malattie rare. Bisogna assicurare la presa in carico dei malati creando percorsi di diagnosi e terapia integrando i Centri specialistici con la medicina del territorio per non frammentare o rendere macchinosi i percorsi stessi. Bisogna garantire l’accesso alle terapie, che in molti casi sono disponibili, semplificando le norme per la loro erogazione e attribuendone il carico al SSN, senza discriminazioni territoriali e fornendo il meglio ai malati in termini di farmaci innovativi. E non ultimo, occorre promuovere la ricerca sulle malattie rare e la diagnostica precoce, perché in molti casi col farmaco adatto fornito, tempestivamente, si ottiene il vantaggio di un malato meno malato, che non ha bisogno di assistenza e presidi a maggior costo, in altre parole di un malato che può essere parte attiva nella società, fornendo in termini di ricchezza più di quanto costi.
http://www.iltuoforum.net/forum/l-argonauta-f35/l-argonauta-n-2-quando-la-malattia-e-rara-t1416.html

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